Il tuo prodotto cosmetico è veramente 100% vegano?

Non c’è niente di più bello che poter leggere l’etichetta degli ingredienti del proprio prodotto cosmetico preferito e vedere marchi che certificano il suo essere 100% contro i test sugli animali e completamente privo di ingredienti di origine animale. 

Un numero crescente di consumatori è sempre più orientato verso prodotti cosmetici vegani e cruelty-free, che sono due cose diverse e distinte.

Tuttavia, alcuni  brand si classificano come vegan pur con l’utilizzo di pratiche consolidate nell’industria che sono contrarie ai principi vegani e alle linee guida preposte dalle autorità regolatorie.

Questo può creare confusione tra i consumatori riguardo alla vera natura dei prodotti che acquistano. È importante approfondire e comprendere meglio le pratiche aziendali per garantir loro scelte informate e consapevoli.

Vediamo insieme come avere veramente un prodotto 100% vegan per essere dei veri pionieri e leader del settore.

L'evoluzione della cosmesi in europa e nel mondo

Negli ultimi trent’anni l’industria cosmetica ha vissuto molti cambiamenti.

Dal punto di vista normativo si è passati dal divieto dell’UE sulla sperimentazione animale, approvato per la prima volta nel 1993, al divieto totale del 2013 come parte del Regolamento UE 1223/2009, fondamentale per stabilire il modo in cui affrontiamo la sicurezza nei cosmetici ad oggi, fino alla necessità di sottoporre i prodotti cosmetici a valutazioni di sicurezza e alla notifica al portale CPNP.

Dal punto di vista del marketing abbiamo assistito alla nascita di claim diversi ed eterogenei  come il vegan, il “leaping bunny“, la funzione di barriera della pelle, il fenomeno “clean beauty“, l’incorporazione di indicazioni biotecnologiche negli ingredienti e molto altro ancora. 

Alcune di queste si sono rivelate essere mode passeggere ed altre invece che hanno modificato in maniera permanente i trend di mercato.

Anche se il regolamento 1223/2009, il 655/2013 sulle indicazioni cosmetiche e le varie linee guida emesse dagli organismi dell’UE che delineano le migliori pratiche nella definizione degli studi hanno fornito chiari protocolli per il settore, essi hanno anche lasciato abbastanza spazio per una loro interpretazione ambigua.

I coni d'ombra delle certificazioni

Il claim cruelty-free

Il claim cruelty-free, o claim del coniglietto saltellante, è solitamente certificato da un marchio assegnato ai prodotti cosmetici che presentano la loro documentazione e dimostrano che i loro processi e le loro materie prime non sono stati sviluppati con test sugli animali.

Ricordiamo però che dal 2013 è in vigore un divieto totale di sperimentazione animale a livello europeo per i prodotti finali e le materie prime.

L’UE 655/2013 dice chiaramente che: “Non sono consentite indicazioni che trasmettano l’idea che un prodotto abbia un beneficio specifico quando questo beneficio è solo la conformità ai requisiti minimi di legge”.

Eppure questo claim si ritrova oggi in una vasta percentuale di prodotti cosmetici venduti sul mercato comunitario.

Il claim vegan

Analogamente, negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un aumento del claim vegan. Il movimento vegano è visto da molti come una evoluzione di quello cruelty-free, visto che include non solo l’assenza di test sugli animali, ma anche l’assenza di ingredienti di origine animale nei prodotti cosmetici.

Il veganesimo è  invece un movimento indipendente con radici storiche: le prime società vegane sono state fondate negli anni Quaranta, dall’industria alimentare e solo negli ultimi vent’anni circa ha abbracciato l’industria cosmetica.

Esistono diverse piattaforme di certificazione che offrono marchi di qualità vegan, dove i requisiti richiesti vengono esaminati attraverso l’adesione ai documenti disciplinari emessi da ciascuna società di certificazione.

Tali documenti purtroppo non coprono l’intero processo di sviluppo di un prodotto cosmetico, ma si limitano ai seguenti criteri:

  • Non contiene ingredienti animali o di origine animale;
  • Non è stata effettuata alcuna sperimentazione animale sugli ingredienti o sul prodotto finito;
  • Non contiene Organismi Geneticamente Modificati con geni animali o sostanze derivate da animali.

Materiali di derivazione animale per i test

Ci sono quindi parti delle fasi di sviluppo del prodotto che non sono regolamentate per gli standard vegani. Un esempio è rappresentato dai materiali utilizzati durante i test.

Il test di efficacia della conservazione, o challenge test, è un ottimo caso di studio, poiché è un test obbligatorio per i prodotti che richiedono un sistema di conservazione.

Questo test utilizza brodi di agar di ingredienti di derivazione animale e quindi, da un punto di vista strettamente vegano, la maggior parte dei prodotti non sarebbe qualificata per un marchio vegano se questo fattore venisse preso in considerazione.

Alcuni laboratori hanno sviluppato e offerto un’alternativa vegana a questo challenge test, utilizzando brodi di agar di derivazione vegetale, ma questa soluzione non è stata ampiamente implementata nel settore.

Testing su umani

Un’altra questione da sollevare è se i test sugli esseri umani, che sono consentiti, ma regolati dall’accordo di Helsinki e da altre linee guida dell’UE, debbano essere presi in considerazione per gli standard vegani.

È interessante sapere che alternative al test in vivo su volontari sono ampiamente disponibili nell’industria attraverso test in vitro.

Ma è utile anche un esame caso per caso dei test in vitro. Test come EpiDerm® e SkinEthic® utilizzano modelli di epidermide umana ricostruita (RhE), anch’essi derivati da cellule umane. L’unica alternativa 100% vegana, secondo  è l’uso di metodi macromolecolari, come il Dermal Irritection®.

Occorre inoltre considerare attentamente l’etica dei piani di studio che coinvolgono volontari umani.

Secondo l’opinione del Comitato Scientifico per i Prodotti Cosmetici e i Prodotti Non Alimentari, i test sugli esseri umani sono consentiti, ma devono essere prese in considerazione tutte le considerazioni necessarie per ridurre al minimo i rischi per i soggetti umani.

Spesso in questo caso non è sufficiente sottoporsi a una valutazione bibliografica basata sugli elenchi degli ingredienti, che è attualmente la prassi comune.

Screening in vitro + patch test

La prassi standard valuta il potenziale di irritazione cutanea attraverso il patch test, che di solito viene effettuato su un numero di volontari compreso tra dieci e trenta.

Questo test, che viene effettuato su un campione molto ridotto e che quindi dovrebbe essere ulteriormente supportato, dà origine a uno dei claim più utilizzati nell’industria cosmetica, il “dermatologicamente testato”. 

Da un punto di vista etico, è indispensabile garantire la sicurezza dei volontari umani, dal momento che i test di conferma in vitro sono ampiamente disponibili.

Esempi di questo tipo possono essere l’uso di Dermal Irritection® come screening prima dell’esecuzione di qualsiasi studio cutaneo, o l’uso dell’Ocular Irritection® prima degli studi oftalmologici. In questo modo si garantisce la sicurezza dei volontari umani e si può valutare responsabilmente l’efficacia del prodotto.

I test in vitro non solo garantiscono la sicurezza dei volontari umani, ma aggiungono una convalida scientifica ai risultati di un patch test.

Come colmare i datagaps senza ricorrere alla sperimentazione animale

Così come ci siamo allontanati dalla sperimentazione animale, ora ci stiamo gradualmente allontanando anche dai dati tossicologici, utilizzati per la valutazione dei prodotti cosmetici, derivati dalla sperimentazione animale, persino dagli studi pubblicati prima del divieto di sperimentazione animale.

L’industria si rende conto che, con l’evolversi dell’utilizzo di nuovi ingredienti e materie prime, avrà bisogno di nuovi strumenti per effettuare valutazioni tossicologiche senza il NOAEL, su cui in precedenza si faceva molto affidamento.

Stiamo assitendo all’evoluzione dei NAM, Nuovi Metodi Alternativi, che mirano a creare meccanismi per la valutazione del margine di sicurezza di ingredienti specifici e sono inclusi nell’approccio della Valutazione del Rischio di Nuova Generazione.  Ebbene, anche in questo caso, l’inclusione di studi in vitro può dare origine a dati utili per il valutatore della sicurezza.

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